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Debito americano? No grazie, almeno per il 2018.
L’anno appena trascorso ha portato con sé tre evidenze sul mercato a stelle e strisce: quattro rialzi del costo del denaro (per un livello dei tassi d’interesse compreso tra 2,25% e 2,50%); rafforzamento del dollaro Usa del 5% rispetto al paniere delle principali valute mondiali; progressivo disinteresse degli acquirenti di Treasury statunitensi.
I responsabili? Russia, Cina e Giappone.
Tra marzo e maggio 2018 (mesi a cavallo dei quali il rendimento dei Treasury a dieci anni ha toccato il proprio massimo dal 2011 oltrepassando la soglia del 3%), la detenzione di titoli del Tesoro americani in mani russe è calata dell’84%, a 14,9 miliardi di dollari, da un iniziale ammontare di $96 miliardi.
Chi detiene il debito americano? La top 5
Il sell-off russo del debito statunitense ha acceso i riflettori sulle detenzioni mondiali di bond americani: nella top 5 delle regioni più esposte al debito a stelle e strisce, figurano in ordine crescente Regno Unito (con $264 miliardi), Irlanda ($287 miliardi), Brasile ($314 miliardi), Giappone ($1.020 miliardi) e Cina ($1.140 miliardi).
Proprio la Cina, diversamente dalla Russia, è creditore diretto degli Stati Uniti, e vanta un posizionamento in titoli superiore a circa 10 volte quello del Cremlino.
Il debito Usa in mani cinesi: 29% del totale
Secondo i dati aggiornati ad ottobre 2018, Pechino detiene crediti in titoli statunitensi per un ammontare complessivo di 1,138 trillion di dollari, pari al 29% del totale tra titoli del Tesoro, obbligazioni e banconote a stelle e strisce detenuto da Paesi stranieri. Il resto del debito nazionale (pari a circa 21 trillion di dollari) è di proprietà del popolo americano e dello stesso governo.
La Cina ha la più grande quantità di debito statunitense detenuta da un paese straniero; una rilevazione, questa, che muove da ragioni anzitutto finanziarie.
Il potere monetario cinese deriva dalle esportazioni in America. I settori più interessati dall’export di prodotti sono quello elettronico, dell’abbigliamento e dei macchinari. Molte aziende con sede negli Stati Uniti mandano i propri materiali grezzi alle fabbriche cinesi, per beneficiare di costi di assemblaggio più competitivi. I prodotti finiti diventano dunque importazioni americane quando vengono rispediti negli Stati Uniti.
Dollari in pancia alle banche centrali estere
Nell’effettuare tali passaggi, le aziende cinesi ricevono in pagamento dollari Usa, che vengono depositati nelle banche locali in cambio di yuan. Le singole banche girano i dollari alla banca centrale cinese, che li destina a riserva in valuta estera. Tale passaggio riduce l'offerta di dollari a disposizione per il commercio, spingendo a rialzo il dollaro (ed attenuando dunque le spinte sullo yuan locale, più competitivo). Sempre la banca centrale cinese, nell’intento di ottenere una rendita dai propri dollari in giacenza, utilizza parte di quei dollari per acquistare Treasury statunitensi.
Nonostante Pechino resti il principale acquirente mondiale per le ragioni appena indicate, la Cina ha ridotto per cinque mesi consecutivi le proprie posizioni sui buoni del tesoro americani: le riserve valutarie cinesi sono diminuite durante il mese di ottobre con l’intento di difendere la propria valuta. Complice la guerra tariffaria voluta dal presidente Trump (ed una minore appetibilità per i capitali esteri a posizionarsi sul mercato cinese), il renminbi si è infatti lasciato indietro circa il 6% contro dollaro.
Il fattore valutario ha spinto anche il Giappone ad alleggerire le proprie detenzioni in Treasury: da $1,028 trillion di settembre, Tokyo ha ridimensionato le proprie disponibilità nel Tesoro Usa a $1,018 trillion, in calo per il terzo mese consecutivo.
Gli investitori giapponesi tendono ad acquistare debito Usa per beneficiare di una copertura incrociata; l'aumento del costo del Libor è andato però a contrastare tale beneficio. L’approccio del Giappone nei confronti del dollaro non è diretto come quello operato dalla PBoC, sebbene il risultato sia similare a quello ottenuto dalla Cina: la ricerca di uno yen più basso rispetto al dollaro è stata perseguita cercando di aumentare l’export nipponico negli Stati Uniti, ricevendo dollari in cambio. La Bank of Japan, al pari dell’istituto centrale cinese è così il maggiore acquirente di Treasury statunitensi. Una condizione, questa, che sembra però destinata a smorzarsi.