Siria: Turchia dà il via all’invasione. Prezzo del petrolio ancora stabile
Le tensioni in Siria (e non solo) lanciano segnali negativi, eppure la quotazione del greggio non ne risente
Sono iniziate ieri le operazioni militari nel nord della Siria. La Turchia ha invaso il nord del paese, approfittando del via libera garantito dal ritiro dei soldati statunitensi. Ieri sera le forze turche hanno attraversato il confine, dispiegando forze d’aria e di terra (l’artiglieria conta circa 25 mila soldati) e scontrandosi con le Forze Democratiche Siriane, a guida curda. I raid aerei turchi avrebbero già colpito le milizie YPG, il nucleo principale delle Forze Democratiche, provocando la morte di cinque civili e tre miliziani curdi, oltre a dozzine di feriti.
Il tutto nell’indifferenza degli Stati Uniti, storici alleati dei curdi. Il presidente statunitense Donald Trump ha fatto sapere di considerare l’attacco “una cattiva idea” e di non appoggiarlo; di fatto, il ritiro delle truppe statunitensi, disposto domenica sera dopo una telefonata con il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, ha garantito il via libera alle operazioni. La mossa di Trump non ha raccolto troppi consensi neanche tra le file dei Repubblicani: per il senatore Lindsey Graham, tra i suoi alleati più stretti, l’abbandono dei curdi sarebbe “l’errore più grande della sua presidenza”.
Preoccupazione sul piano internazionale: l’Europa ha chiesto a Erdogan di tornare sui propri passi, temendo una nuova fase del conflitto che dura in Siria ormai da otto anni.
Emblematico il silenzio di Damasco, che lascia pemnsare a un accordo tacito tra Bashar Al Assad, Erdogan e Putin per risolvere il problema della presenza curda nel nord-est della Siria. Le stesse milizie YPG avevano firmato un intesa con il governo di Damasco per combattere l’ISIS e i ribelli sunniti in cambio di una maggiore indipendenza della regiona curda del Rojava. L’invasione turca rende palese come le promesse fatte da Bashar Al Assad fossero fragili.
Come ha reagito il prezzo del petrolio?
Non si registrano tuttavia particolari sconvolgimenti sul mercato dell’oro nero, se non un leggero ribasso in mattinata: - 0,06% per il Wti (WTI Crude (SGD1 Contract)), che si ferma a 52,64 dollari al barile; -0,14% per il brent (ETFS Brent Crude), a 58,11 dollari al barile.
Sembra dunque che i mercati siano ancora in attesa di chiarezza su vari fronti aperti sullo scenario internazionale. Oltre alla situazione in Siria, infatti, che all’inizio della settimana aveva provocato un rialzo del prezzo del petrolio, destano preoccupazione le proteste in Iraq.
Secondo produttore di greggio all’interno del cartello dell’OPEC (ad agosto la produzione irachena aveva toccato i 4,8 mln di barili al giorno), L'Iraq sta infatti frontaeggiando la seconda settimana di manifestazioni. Centinaia di persone sono infatti scese in piazza a Baghdad, per protestare contro la corruzione degli alti livelli governativi e chiedere politiche per il lavoro e l’accesso a elettricità e acqua potabile. La crisi è arrivata a lambire anche le aree del paese in cui sono presenti le infrastrutture petrolifere. Il rischio di incidenti si fa sempre più alto, soprattutto in considerazione della presenza di giacimenti petroliferi nel Kurdistan iracheno (adiacente al teatro delle operazioni militari) e alla condizione delle riserve irachene – che non sarebbero in grado di sopportare uno shock come gli attentati di metà settembre in Arabia Saudita.
A questo si aggiungono le tensioni in Ecuador, che ha annunciato di voler uscire dall’Opec (l’organizzazione dei principali paesi produttori di petrolio) e da giorni è scossa da proteste in risposta alla rimozione dei sussidi sui carburanti.
Buone notizie invece sia dall’Arabia Saudita, in cui Saudi Aramco sta riprendendosi molto più in fretta rispetto alle aspettative dagli attentati di settembre alle proprie infrastrutture petrolifere.
Perché il petrolio non sale?
Nonostante tali e tanti segnali d’allarme, i mercati non reagiscono. Gli occhi di tutti sono puntati sulle trattative commerciali tra Cina e Stati Uniti, che inizieranno oggi pomeriggio per concludersi domani. A seconda dell’esito delle negoziazioni, infatti, potrebbero verificarsi cambiamenti rilevanti sul volume della domanda. Qualora (come probabile: le prospettive di un accordo tra Cina e Usa sono ben lontane, secondo quanto hanno affermato a Reuters fonti del governo cinese) le trattative non dovessero andare a buon fine, la domanda di petrolio si prospetta infatti più debole – ed è proprio su questo che si cullano per ora i mercati.
A conferma di una domanda debole di greggio sono arrivati ieri i dati sulle scorte statunitensi, risultate ben maggiori rispetto alle aspettative degli addetti ai lavori.
Quali aspettative per il futuro?
Secondo il nostro strategist Filippo Diodovich i prezzi petroliferi potrebbero tornare a infiammarsi nel breve sulla scia dell’escalation degli scontri in medio-oriente. Se al momento è la debole domanda a controllare l’andamento dei corsi dell’oro nero, fra qualche settimana gli effetti negativi delle tensioni geopolitiche potrebbero riflettersi notevolmente sull’offerta provocando un aumento dei prezzi. Diodovich ritiene possibile che i corsi del Wti Light Crude possano evidenziare un rimbalzo sul supporto in area 52 dollari al barile in direzione di target ipotizzabili a 55 dollari.
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